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Rimettere in forma

inserito il March 9, 2023

Una vita spesa a tenersi in forma e a rimettere in forma gli altri”, in brevissimo questo è il succo del curriculum della prof. Branka Pavić, classe '52, nata in Jugoslavia a Podolec, oggi Croazia, studi superiori alla Scuola di Medicina Fisica a Zagabria e poi laurea in Scienze della Riabilitazione all’Università degli Studi “Tor Vergata” Facoltà di Medicina di Roma e specializzazione in Fisioterapia a Napoli.

Una carriera nell’insegnamento, docente delle discipline “Orientamento Professionale” e di Tecniche della Riabilitazione nei Corsi Integrati di Neuropsichiatria Infantile e di Neuropsicologia dell’Università di Napoli Federico II, sede di Benevento, specialista in educazione Psicomotoria e Tecniche riabilitative.

Grande esperienza nel volontariato con i bambini più in difficoltà con i progetti Special Olympics e internazionale in Nepal, presso l’Himalayan Healing Centre Clinic ed in Etiopia al St. Gabriel Clinic di Ghetce.

Da due anni, impegnata nel progetto Docs for KiM, vanta due missioni all’attivo e la terza in procinto di partire, a metà marzo.

Un carattere schietto, tono di voce basso ma fermo, grande capacità empatica, possibilità di esprimersi nella lingua madre del paziente, fanno della prof.ssa Pavić un elemento essenziale nei casi di bambini con difficoltà neurologiche.

Prof.ssa Pavić, come è stato tornare a casa da cooperante?

Emozionante, come ogni ritorno a casa. Io sono nata a Zagabria quando era ancora Jugoslavia. Quindi per me essere a Belgrado, Pristina o qualunque altro posto nei Balcani significa stare a casa. Penso che maggior parte della popolazione (croata, serba, bosniaca o altro) nutra gli stessi sentimenti. Il disagio, le divisioni e le guerre nascono dagli interessi del potere e non dalla gente, che vive una vita normale e desidera solo pace per sé e per la propria famiglia. Quando vado in Kosovo o in Serbia spesso rido con le famiglie che mi ospitano sul fatto che, da quando siamo nazioni diverse, parliamo tante lingue: serbo, croato, bosniaco, sloveno...

Ci può spiegare brevemente il suo ruolo con le famiglie dei pazienti?

Prima di tutto devo ringraziare le famiglie per la grande ospitalità e gentilezza con cui mi hanno accolta. Il mio arrivo a casa loro crea tante aspettative per il futuro dei loro figli. Io rimango però solo una settimana, quindi direttamente con il bambino posso fare poco, perché in così breve tempo difficilmente accetta di lavorare con me. Il mio intervento si basa pertanto soprattutto sull'osservazione dell'ambiente, sul rapporto tra la madre e il bambino e sul coinvolgimento di altri familiari. Mi concentro anche su che cosa può offrire il territorio per l'inserimento del bambino nel contesto extra-familiare. E poi valuto quello che la madre può fare nel processo riabilitativo per le problematiche specifiche. Se necessario, apporto le modifiche e suggerisco diverse strategie. Purtroppo, queste famiglie sono seguite da centri di riabilitazione molto distanti dalle loro abitazioni, dove vengono ricoverati per una decina di giorni un paio di volte l'anno. Teoricamente in questi centri i genitori dovrebbero essere addestrati a continuare il programma riabilitativo a casa, ma ciò non avviene. Come risultato, si sentono impotenti e molto fragili.

Che situazione, parlando del suo campo, fisioterapia e riabilitazione, ha trovato in Kosovo e Metohija?

Per la riabilitazione in neuropsichiatria infantile, un vuoto totale. Le famiglie vengono seguite dalle strutture che si trovano per lo più a Belgrado. Anche l’inserimento nel contesto scolastico è difficile: non c'è nulla di strutturato. Il piccolo Uroš, che continuo seguire a distanza, finalmente inizia ad andare all'asilo. Ma questo è stato possibile solo grazie alla dirigente scolastica e alle insegnanti che si sono rese disponibili, a livello umano e non per obbligo.

Quanto è importante instaurare un rapporto umano con le famiglie?

Per le famiglie che affrontano il problema di un bambino con difficoltà psicomotorie è fondamentale non restare sole. Hanno bisogno di supporto psicologico, sanitario, riabilitativo, scolastico... Nel caso del Kosovo, dove non c'è nulla di strutturato, le famiglie possono contare solo sulla buona volontà dei singoli o delle associazioni, e sul supporto e sul calore umano che trasmettono loro.

Ci può regalare in due immagini, la sua esperienza più bella e quella più triste, da quando è coinvolta in questo progetto?

Sicuramente il momento più bello è stato quando la madre del piccolo Uroš mi ha mandato il video in cui camminava da solo, peraltro all'asilo in mezzo ad altri bambini. Il momento più triste, ancora forte nei miei ricordi, è avvenuto all'aeroporto di Pristina. Avevo fatto una domanda in serbo-croato e l’addetta alle informazioni ha replicato in inglese che, se avessi voluto una risposta avrei dovuto chiedere in inglese oppure in albanese.

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