Il venti febbraio del 2012, i Balcani furono attraversati da gelidi venti siberiani e per una settimana intera nessuno riuscì a muoversi.
Dopo sette giorni di assoluto isolamento, grazie al coraggio, determinazione e compassione di alcuni uomini, si iniziò nuovamente a distribuire le risorse di prima necessità per le famiglie isolate. Tra queste figure generose, ricordiamo Damiano del Gigante, esempio di Carabiniere gentiluomo e caro amico del nostro monastero, oggi prematuramente scomparso.
Segue un piccolo racconto di quei giorni, dei quali Damiano fu certamente protagonista.
Lieve gli sia la terra, eterna la memoria.
IL MIO NOME È DUŠAN
Ma cos’è l’inverno nei Balcani? Ci vorrebbe uno scrittore, per spiegarlo. È silenzio, un profondo silenzio che si diffonde per le strade, il cielo che diventa cupo all’improvviso, pesante e poi una moltitudine di fiocchi bianchi. Piccoli all’inizio e radi, quasi a lasciarti dubbioso, ma nevica veramente? Poi nello spazio di un amen, esplode come un fuoco d’artificio, una poderosa tormenta.
Dalle nostre parti si dice che quando nevica non fa freddo, in Kosovo nevica a – 8° e poi quando il termometro scende ancora, vengono giù dal cielo cristalli di ghiaccio, pungenti come spilli.
L’inverno balcanico sono le tende imbiancate della Baščaršija a Sarajevo, le rive della Bistrica di Prizren piene di neve, il prato verde di Dečani completamente bianco.
L’inverno balcanico è il silenzio che occupa i villaggi, che rende fumanti i camini, i passeri sul davanzale della finestra che becchettano il vetro per entrare, i militari infagottati in goretex e pile, ricoverati nelle garitte super riscaldate, serate tranquille, senza auto per strade, con tanta sneg (neve in serbo) per terra che non riesci a vedere neanche la strada.
La neve a Dečani è sopratutto una magia buona, fiocchi rallentati che non riesci a distinguere se cadano o salgano, i passi rapidi di Padre Avakum che crepitano tra i suoni ovattati del monastero, la fontana che continua a pompare acqua, una sfida contro il gelo.
La sneg è una benedizione per i campi, per le riserve idriche, per i raccolti che verranno.
È una preoccupazione terribile per i serbi di Kosovo, isolati nei villaggi ricostruiti dalla UE, senza spalaneve, senza servizi, senza collegamenti, senza lavoro, senza e basta.
La storia nasce la sera prima, Padre Isaija è scuro in viso.
“Teribile (i serbi, quando parlano in italiano, non raddoppiano), ci sono famiglie senza cibo a Klina e Žač”
“Come senza cibo, cosa vuol dire?”
“Sono senza cibo, non possono mangiare domani” “Credo di non capire”
“No, hai capito benissimo, non hanno cibo e hanno bambini, dobbiamo aiutare, dobbiamo andare”
“Padre Isaija ma ci sono due metri di neve, come si fa”
Il monaco che oltre ad essere monaco è anche serbo, quando si mette in testa qualcosa non ci sono santi e la risposta lascia di stucco “… si fa con il Toyota, buona macchina per neve”
“Va bene padre, andremo”
“Bravo, dimenticavo… dobbiamo trovare cibo”
“Padre sono le nove, dove lo troviamo il cibo? Quante persone sono?”
“Quindici, venti… famiglie, Dio aiuta”
Internet fa il resto, una mail stringata al Comandante di Villaggio Italia, il Colonnello Andrea Borzaga, un Alpino, un gentiluomo colto e compassionevole, una telefonata a Damiano, che ufficialmente è il Capitano dei Carabinieri MSU Damiano Del Gigante, nella vita reale un fratello sensibile ai bisogni degli ultimi. Cellulare staccato, servizio pesante per le strade di Pristina, la legalità in Kosovo è ancora una parola lontana.
Si prova a dormire con mille pensieri, sotto la neve balcanica che continua a cadere senza fermarsi un momento.
Il klepalo di Dečani suona presto al mattino, tutti in piedi, prima in Chiesa, poi a pranzo e subito dopo a spalare.
Fiocca a manetta. Una telefonata al Colonnello Borzaga, l’Alpino non delude mai: “fate un salto a Villaggio Italia, faremo la nostra parte”
Appena chiuso con Borzaga si fa vivo Damiano.
“Ma come si fa, così all’improvviso, non so cosa prendere…”
“Damiano, serve tutto, farina, olio, zucchero, pasta, pane, non hanno da mangiare”
“Ti richiamo tra un quarto d’ora”
I padri Kirijak, Jeremija e Julijan, aiutati da Miljan, Srdjan e Dalibor stanno spalando di gran lena, in questi giorni, per riuscire a prendere l’auto, si spala per almeno due ore.
Si fa fatica, ma ci si sorride, ci si incoraggia, ci si conforta, ci si scalda con un the serbo, non una parola fuori posto, sguardi complici per portare a compimento un lavoro benedetto dal Signore, dobbiamo aiutare.
Ore 11.00, le buone notizie sono tre: uno, il Toyota è libero; due, i freni sono ghiacciati ma padre Isaija ha tirato fuori una specie di caldo bagno beghelli e li sta scongelando; tre, Damiano ha telefonato: “Ci vediamo a Klina, ho procurato del cibo”.
Quando accade tutto questo penso sempre a chi, in Italia, parla tanto ed a vanvera della nostra missione umanitaria in Kosovo.
Che fine avrebbe fatto il monastero di Dečani senza i nostri militari? E dove avremmo procurato il cibo di oggi? Lo so, le obiezioni sono tante e la storia è complessa, ci sono state le bombe del ’99 e le ingerenze della Nato, ma sono certo che senza i nostri militari sarebbe stato tutto molto peggio.
Padre Isaija è già in macchina, salta su mi dice, dobbiamo andare.
Percorriamo un kilometro e mezzo per la strada che padre Davide spala ogni giorno con la ruspa. Dopo appena duecento metri dall’ultimo check point che protegge il monastero, ci scopriamo bloccati da cumuli di neve fresca.
È il frutto della protezione civile etnica. I mezzi spalaneve del Comune di Deçan (il nome albanese di Dečani) sgombrano le strade della cittadina; niente di tecnologicamente raffinato, sono mezzi di fortuna, trattori modificati per l’occasione, che depositano la neve in eccesso sulla via per il monastero, tanto lì ci sono i serbi, non c’è bisogno di pulire.
Padre Isaija non demorde è giù dall’auto a valutare con attenzione una situazione che a me sembra disperata.
Si materializza Nello, alpino del meridione, siciliano dei Nebrodi, proprio non ce la fa a restare chiuso al caldo della garitta mentre un monaco si affanna attorno ad un’ingiustizia. Ha una pala in mano… di nuovo a scavare.
In appena mezz’ora è fatta, le quattro ruote motrici a marce ridotte non tradiscono e siamo fuori da questa tundra siberiana.
Padre Isaija sorride. “Bello l’inverno, mi piace molto”.
Per strada poche vetture, sui tetti delle case, tutti a spalare neve, si temono i crolli, sta venendo giù sneg a tonnellate.
Dečani, Villaggio Italia, 12 kilometri, un’ora e un quarto di tempo, sotto, fondo ghiacciato, sopra, neve fresca, mentre, dal cielo fiocca che è una meraviglia, in strada qualche macchina intraversata.
Padre Isaija si ferma in salita, c’è un uomo solo con una Peugeot, aiutiamo. Forse la cultura della tolleranza si costruisce anche in questo modo, scavando sotto le ruote motrici e trainando la vettura. La targa è kosovara, lui di etnia albanese, ma che differenza fa se ha bisogno? Probabilmente è questa la strada verso il futuro.
Arriviamo a Villaggio Italia, carichiamo scatoloni di pasta, succhi di frutta, zucchero, olio, conserve.
“Cosa vi occorre?”
“Prendiamo tutto, abbiamo famiglie senza cibo”
E via, riusciamo a trovare crackers, merendine, biscotti.
Damiano chiama, è già a Klina, cuore di carabiniere, s’è fatto 50 kilometri in condizioni patagoniche, ci dovrà aspettare per più di un’ora, temperatura esterna -6° il vento è una frustata secca che ti gela il viso.
Il Kosovo scivola dai nostri finestrini, padre Isaija parla, mi racconta della guerra, della sua conversione, dei suoi cani, delle sue debolezze: “i vostri gelati sono buonissimi, devo mettermi a dieta, ma io penso non prima di domani”.
Monaci serbi, gente eccezionale.
Arriviamo a Klina, Damiano, grazie a Dio, ha il Defender passo lungo, pieno di cibo.
Klina è la quinta città del Kosovo, il municipio è nuovo di pacca, copia fedele in scala della Casa Bianca di Washington, di fronte a tanto si rimane di stucco.
La strada, per il villaggio serbo di Vidanje, non è spalata. L’imperativo è: marcia ridotta e salire. Per la via, padre Isaija strombazza e saluta Radovan, più o meno trent’anni, calza delle semplici scarpe da ginnastica, marcia nella corsia opposta alla nostra, tre kilometri a piedi per comprare il pane, lo shopping dei serbi di Kosovo.
Arriviamo al negozio di Ranko Kostić.
Questo non riesco proprio a fotografarlo, sono quattro casse di Coca cola, due di patate, qualche tavoletta di cioccolato Galeb, il famoso cioccolato serbo, due, leggasi due bottiglie di olio di semi e due figliole, dignitosissime nello sguardo e nell’abito.
Ancora un’ora di strada, anche se di strada non c’è neanche l’ombra; neve, neve ed ancora neve, ogni tanto una piccola casa di mattoni rossi. È il progetto di ripopolamento delle comunità serbe in Kosovo, fortemente voluto dall’UE.
Vicino ai ruderi delle case serbe distrutte, sorgono delle piccole costruzioni di 50 mq. Saranno i mattoni senza intonaco ma sembrano Lego. Dopo la guerra e le violenze del 2004 questo è stato l’indennizzo per i serbi. Un cubo con un tetto e quattro finestre, costruito quasi sempre accanto alla casa originaria distrutta. Niente elettricità, nessun riscaldamento, niente acqua e per oggi, ancora, niente cibo.
All’improvviso, su un cumulo di neve, svetta un cartello giallo, dono dello stato ungherese, Zallq è il nome in albanese, Žač in serbo, ma si legge a fatica.
Che aria tiri per i serbi di Žač lo si capisce subito dall’indicazione stradale ed in Kosovo il desiderio di cancellarti dalla storia non è una buffonata tipo la Padania.
Procediamo verso un altro insediamento, il Toyota arranca, questa neve è troppa anche per lui, padre Isaija non esita, dobbiamo salire.
Quando meno te lo aspetti, dal nulla bianco cosparso di casette Lego, temperatura esterna –7°, si materializza una colonna umana; in ordine sparso affondano degli stivali di gomma, che da noi non si usano più neanche in campagna, sulla neve morbida ed alta almeno mezzo metro.
Un bimbetto magro, saluta e chiama a gran voce: “Oče Isaija, oče Isaija - padre Isaija”.
Il Toyota si arrampica, loro aspettano davanti alla porta, non ci fanno entrare.
“Ja se zovem Dušan - Io mi chiamo Dušan”
Padre Isaija mi spiegherà dopo, si vergognano della povertà, delle bimbe ammalate, della mancanza di riscaldamento, di un cubo di mattoni a vista, privo di isolante ed intonaco, senza mobili e senza pavimenti.
Serbi di Kosovo.
Scarichiamo il cibo. Nevica di meno, anche loro si sciolgono un poco, spunta la rakija, l’ho già bevuta a Vidanje ma chissenefrega, ti offrono quello che hanno, non si può rifiutare.
Il bimbo sbircia e ride, ad ogni pacco di pasta si gira verso la madre e ride.
“Kako se zoveš - Come ti chiami?” Nel mio serbo improbabile.
“Zdravo car Dušan - Ciao Re Dušan”, per un gioco di accenti tutto slavo, car si pronuncia zar e Dušan, Duscian.
Provo a scriverlo in cirillico sulla neve, i caratteri sono belli e misteriosi, Душан.
Adesso ridono tutti, ho dimostrato di sapere il nome del più potente e glorioso sovrano Nemanjić, vincitore dei bulgari ed imperatore dei greci, metà del 1300. Per i serbi 700 anni sono un’inezia, sono riuscito, maldestramente, a scriverlo pure in cirillico, mi riconoscono per quello che cerco di essere, un loro amico.
Ancora rakija ed ancora živeli, poi mi raccontano del cibo finito il giorno prima, di una vita di stenti ed angherie, di come si riesca faticosamente a sopravvivere, del cancro di Vladimira, 32 anni e mamma di tre figlioli, del sangue malato di Jovana 7 anni e dei problemi agli occhi di Dušan 10 anni. Di come si possa essere disperati quando non si ha niente e nessuno, quando non si può contare su nulla e ci si raccomanda a Dio come ad un padre.
I kosovaro/albanesi li vogliono via, spazzati dalla cronaca e dalla storia, cancellati come il cartello giallo all’inizio del villaggio, ma il Kosovo è la loro terra, la terra dello car Dušan, vorrebbero restare, ma senza elettricità, senza lavoro, quanta fatica.
Lasciamo qualche tavoletta di cioccolata, regalo italiano di Anna, amica di Dečani, qualche piccolo gioco, una scatola di matite colorate.
Dušan continua a ridere: “ma che ti ridi mostriciattolo?”
“Stasera mangiamo”
Ho un groppo alla gola, tiro via ancora qualche pacco di zucchero, vorrei lasciare a questi eroi di Serbia una Coop intera.
Qualche banconota nella tasca di Nebojša, denaro da condividere con le altre famiglie, poca roba ma non possiamo fare di più, non abbiamo abbastanza.
Risaliamo sul Toyota, Dušan mi saluta, ci salutano tutti, lo fanno con le mani e riusciamo a sentire il cuore, mi dispiace non saperlo dire meglio, ma questa gratitudine assoluta bisogna provarla, non ho parole per descriverla.
Non è solo felicità per il cibo ricevuto, è commozione per la solidarietà, per la capacità d’ascolto, gratitudine per la strada che abbiamo percorso sotto la neve, per non esserci fermati di fronte agli ostacoli, per degli scarabocchi in cirillico che consentono una risata.
Per non averli abbandonati, realmente non so spiegare, l’intensità del loro saluto, è qualcosa di molto simile ad una benedizione.