Nove anni fa, la notte del 17 marzo, in Kosovo e Metohija si scatena la “caccia al serbo”. Due notti terribili, dove l’odio etnico e la furia distruttrice non conoscono tregua. Migliaia di profughi, decine di chiese, monasteri, cimiteri distrutti e profanati.
Ci aiuta a capire meglio, contestualizzando lo scenario storico, l’interessante articolo di una nostra amica, la dott.ssa Katarina Lazic, che analizza “scientificamente” l’accaduto.
I pogrom antiserbi nel marzo 2004
"A volte ci si può chiedere se l’animo di popoli balcanici non sia stato definitivamente intossicato dalla violenza e se per loro, forse, l’unico modo per coesistere non sia costantemente di fare e subire violenza". Ivo Andric, Znakovi pored puta
бал¬канских народа
Заувек отрован и да, можда, никад
Више не¬ће ни моћи ништа друго до једно: да трпи насиље и да га чини.
Иво Андрић,
Зна¬ко¬ви по¬ред пута
"Ci fu un evidente obiettivo dietro quelle violenze: sbarazzarsi della minoranza serba e delle altre minoranze rimaste in Kosovo", sentenziò lo Human Rights Watch in un rapporto sugli incidenti di quel marzo.
Diciannove morti, oltre mille feriti, settecento case serbe bruciate, numerosi monasteri medievali danneggiati. Priština, Svinjare, Vučitrn, Đakovica, e Prizren: non c’è un palmo di Kosovo immune ai pogrom antiserbi che divampano nella regione il 17 marzo del 2004.
A scatenare la cosiddetta Cristal night fu la morte di tre ragazzi albanesi – Egzon Deliu, Avni e Florent Veseli annegati il 16 marzo nel fiume Ibar. Sarebbero stati prima minacciati e poi inseguiti da un gruppo di serbi, che avrebbero aizzato contro di loro un cane.
Nel ricapitolare la storia davanti alle telecamere, Fitim Veseli – riuscito a trarsi in salvo – non disse nemmeno una volta di essere stato inseguito da dei serbi. Nonostante questo, i Kosovari di etnia albanese sostennero la tesi dell’omicidio a sfondo etnico, nonostante il portavoce dell’Unmik ((Missione di amministrazione provvisoria delle Nazioni Unite in Kosovo ) Neridge Singnek avesse invitato a non trarre conclusioni precipitose.
Circa 50.000 albanesi scesero in piazza, tanti quanti erano i reduci dell’Esercito di Liberazione del Kosovo (Uçk). L’ondata di violenza partì da Mitrovica, dove si assistette a feroci scontri accompagnati di lanci di molotov, fucilate, sassaiole. Gli scontri da lì si sconfinarono poi ovunque.
Durante gli scontri del marzo 2004 furono abbattuti e sfregiati i monasteri di Devič vicino a Srbica, i dormitori del monastero Sveti Arhangeli vicino Prizren, dove furono anche bruciate le chiese della Bogorodica Ljeviška del XIV secolo e Patrimonio mondiale dell’Umanità dell’Unesco e la chiesa di Sveti Đorđe del XVI secolo.
Sparirono più di 10.000 oggetti di valore insieme ai documenti conservati nelle chiese e monasteri. Sui muri fu scritto “Morte ai serbi”.
Perché tutto questo?
Il capomissione dell’Onu nel 2004, il danese Harri Holkeri sostenne che gli estremisti albanesi avevano “un piano pronto” e che la missione non riusciva più a controllare ogni aspetto della quotidianità, come l’anno precedente.
Tuttavia il background è molto più complesso. Il 16 marzo diciottomila albanesi erano scesi in piazza per manifestare contro l’arresto di quattro ex-capi dell’Uçk, accusati di crimini di guerra dal Tribunale dell’Aja. Il marzo 2004, perciò si trasformò in un’occasione per contestare a gran voce l’Unmik.
Un altro motivo era la mancata scossa dell’economia unita alle incertezze sullo status della regione, che aveva già di tempo spazientito i partiti locali che avevano definito la Kfor come una potenza occupante.
Il 17 marzo portò, in ogni caso, un messaggio importante, l’indipendenza non poteva aspettare a lungo.
La violenza fu la risposta alla strategia “standard prima dello status”, dove la comunità internazionale pretendeva dei livelli di sicurezza democratica accettabile prima di pronunciarsi a favore dell’indipendenza, che doveva essere abbandonata a favore della strategia: “status e poi standard”.
Il Parlamento europeo a Strasburgo accolse il messaggio: il 1 aprile adottò la risoluzione nella quale si chiedeva al Consiglio dei Ministri Ue di iniziare la discussione sullo status del Kosovo e Metohija.
La versione serba, spiega che l’operazione Spring river era stata orchestrata dal Movimento popolare per la liberazione del Kosovo con l’obiettivo di pulire etnicamente il Kosmet e annullare le tracce della presenza serba nella provincia. Nella prima fase dell’operazione, il compito era di portare la popolazione serba nello spazio più piccolo possibile e poi, minacciandola, portarla via dal Kosmet. Nella terza fase si prevedeva di isolare completamente i serbi rimasti. La Kfor trasportò i serbi via dalla frontiera di Merdare nella Serbia centrale, in seguito gli albanesi bruciarono le case serbe.
La risposta di Belgrado fu il piano del Governo serbo del 29 aprile 2004 in cui, sulla base della risoluzione 1244 che protegge l’integrità del territorio serbo, venne redatto un piano per stabilire le garanzie legislative e istituzionali per la minoranza serba. Il Piano, inoltre prevedeva l’autonomia territoriale della minoranza serba e la decentralizzazione del Kosmet.
Una settimana dopo il Piano del governo serbo, che gli albanesi avevano rifiutato spiegando che avrebbe portato alla divisione territoriale del Kosmet, fu annunciato da parte della comunità kosovara-albanese, l’apertura dell’Ufficio per la cooperazione internazionale e dialogo.
Il vero scopo, secondo molti, era di porre le basi per il futuro Ministero degli affari esteri del Kosmet. Questo sarebbe stato il primo vero passo verso l’indipendenza.
I pogrom hanno riportato l’attenzione sulla condizione delle minoranze, e in particolare sulla sicurezza. Il fatto che i soldati della Kfor e dell’Unmik non siano riusciti a fermare le violenze e le distruzioni è stato un segnale allarmante con conseguenze che in Kosovo e Metohija si sentono tutt’oggi.
Gli avvenimenti del 2004 sono una delle risposte alla domanda del limitato ritorno dei profughi serbi in Kosovo e Metohija.
Dal 2004 fino al 2013 non si è creata una società democratica e multinetnica e la massiccia quantità di donazioni (si parla di cifre che oscillano tra i dieci e i quindici miliardi di euro) non ha risolto i problemi della provincia.