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La discriminazione contro i serbi e la Chiesa ortodossa in Kosovo

inserito il December 12, 2024

Una significativa intervista dell’Igumeno del Monastero di Dečani, Padre Sava, alla coraggiosa giornalista Elisabetta Burba per la rivista di politica globale Krisis.

Padre Sava: «La discriminazione contro i serbi e la Chiesa ortodossa in Kosovo, 25 anni dopo la guerra»

L'abate del monastero di Decani risponde a chi accusa la Chiesa serbo-ortodossa di incitare la violenza. E racconta cosa è successo dal 1999 a oggi in Kosovo, dove l’atmosfera si sta surriscaldando.

Dalla rivista Krisis, di Elisabetta Burba

In quest’intervista esclusiva, padre Sava Janjic affronta le recenti accuse lanciate contro la Chiesa serbo-ortodossa in Kosovo. L’abate del monastero di Decani traccia un quadro della vita dei circa 80.000 serbi rimasti nell’ex provincia autonoma serba, indipendente dal 2008, descrivendo le discriminazioni che subiscono ogni giorno. A 25 anni dal termine del conflitto, il leader religioso continua a promuovere il dialogo e la riconciliazione nei Balcani. Ma avverte: senza giustizia non può esserci pace.

Dopo l’esplosione del canale idrico Ibar-Lepenac, il 29 novembre, l’atmosfera in Kosovo si sta surriscaldando. E la Chiesa serbo-ortodossa è di nuovo bersaglio di pesantissime accuse. Secondo alcuni giornalisti locali, la situazione richiama il clima teso che precedette lo scoppio delle violenze nel marzo 2004. Per capire che cosa sta succedendo, Krisis ha intervistato padre Sava Janjic, l’abate del monastero di Decani.

L’ex sindaco di Pristina Selim Pacolli ha accusato la Chiesa serbo-ortodossa di orchestrare violenze in Kosovo. Ha anche evocato l’Operazione Tempesta, ossia la pulizia etnica dei serbi. Cosa risponde?

«Purtroppo, la Chiesa serbo-ortodossa in Kosovo è oggetto di continue calunnie, che hanno alimentato una crescente ostilità nei nostri confronti, specialmente dopo la guerra del 1999. Nonostante la presenza dei peacekeeper della NATO, 150 delle nostre chiese sono state distrutte o gravemente danneggiate, principalmente durante il pogrom del 2004. La nostra Chiesa non ha mai incoraggiato, sostenuto o partecipato ad alcuna forma di violenza contro gli albanesi del Kosovo. Al contrario, fin dall’inizio della crisi del Kosovo negli anni Novanta, ha insistito per una soluzione pacifica e negoziata a tutti i problemi. Questa posizione è stata molto apprezzata da numerosi rappresentanti e organizzazioni internazionali ed è stata documentata in vari articoli. Durante la guerra del Kosovo, i nostri monasteri, in particolare quello di Dečani, hanno aiutato attivamente tutti i rifugiati, inclusi 200 musulmani albanesi kosovari che hanno trovato rifugio nel monastero per sfuggire ai paramilitari di Milošević. La Chiesa ha organizzato assistenza umanitaria per tutte le comunità colpite dalla guerra, in collaborazione con International Orthodox Christian Charities (IOCC) degli Stati Uniti, come ampiamente riportato dai media».

«Eppure le calunnie e le accuse continuano, poiché la Chiesa rimane il principale baluardo dell’esistenza secolare della comunità serba in Kosovo. La sua presenza è percepita come il principale ostacolo alla trasformazione del Kosovo in uno Stato etnicamente omogeneo albanese o alla creazione di una “Grande Albania”, dove non vivrebbero serbi e non sarebbe tollerata alcuna Chiesa serba-ortodossa. Questo è il motivo principale dietro i tentativi di revisionismo storico e la negazione ostinata della presenza, del ruolo religioso, culturale e sociale della nostra Chiesa in Kosovo oggi. Selim Pacolli, l’ex sindaco della capitale kosovara, Pristina, ha apertamente chiesto in un post su Facebook la pulizia etnica dei serbi dal Kosovo».

E non è l’unico.

«Il 3 dicembre, un altro albanese del Kosovo dell'”Octopus Institute” ha accusato su KLAN TV la nostra Chiesa di nascondere armi e ha indirettamente coinvolto i nostri monaci e suore in attività criminali. Tuttavia, KFOR ed EULEX hanno prontamente negato queste accuse, già respinte l’anno scorso da un parlamentare britannico e mai confermate dalla polizia del Kosovo. Dopo l’incidente di Banjska, avvenuto l’anno scorso, le indagini hanno dimostrato che il monastero non era implicato, ma si trovava in un’area di conflitto armato dove il gruppo serbo aveva abbandonato le sue armi. Non sono state trovate armi immagazzinate né prove di collaborazione tra il gruppo armato e il monastero, come confermato nel rapporto finale del governo del Kosovo. Al contrario, è stato chiarito che il monastero, i monaci e i pellegrini presenti si sono trovati in pericolo durante quel tragico incidente e la polizia del Kosovo ha evitato di sparare verso il monastero nonostante la presenza del gruppo armato nelle vicinanze».

A 25 anni dalla guerra, qual è la situazione della comunità serba in Kosovo? Quanti sono rimasti, quanti sono fuggiti e quanti sono rientrati?

«È difficile stabilire con esattezza quanti serbi vivano oggi in Kosovo. Anche il numero di albanesi del Kosovo non è chiaramente definito, nonostante un recente censimento indichi la presenza di 1,5 milioni di persone nel territorio. Molte fonti internazionali informali segnalano un massiccio esodo di giovani, soprattutto albanesi kosovari, che emigrano in Germania, Austria e Svizzera, spesso senza alcuna intenzione di tornare. Il numero di serbi è stimato intorno a 80.000, con la maggior parte che vive nelle aree meridionali, centrali e orientali del Kosovo. Meno della metà risiede nel nord. I serbi abitano principalmente in dieci comuni a maggioranza serba: quattro nel nord del Kosovo e sei distribuiti in aree prevalentemente abitate da albanesi del Kosovo. Subito dopo la guerra del 1999, 200.000 serbi furono costretti a lasciare il Kosovo, secondo i rapporti dell’UNHCR, a causa di persecuzioni dirette o del timore per il proprio futuro in mezzo agli orrendi crimini commessi dalle milizie albanesi del Kosovo. Queste milizie dominarono gran parte della regione fino a quando la KFOR non stabilì il pieno controllo, mitigando in parte gli attacchi etnici successivi ma senza fermarli del tutto. Gli attacchi contro le chiese serbo-ortodosse sono continuati. Sebbene la Risoluzione 1244 del Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite prevedesse il ritorno di tutte le persone sfollate indipendentemente dalla loro origine etnica, fu facilitato solo il ritorno dei rifugiati albanesi del Kosovo. Dei 200.000 serbi sfollati, solo circa 5.000 sono tornati. La distruzione sistematica post-bellica di villaggi serbi, cimiteri e chiese ha reso chiaro che spesso i serbi non hanno un luogo dove tornare. Nonostante gli sforzi della Serbia e della Chiesa, il processo di ritorno è bloccato e i serbi rimasti affrontano crescenti pressioni affinché se ne vadano».

Qual è lo stato attuale dei luoghi sacri ortodossi in Kosovo?

«Come già menzionato, dopo la guerra del Kosovo si è verificata una campagna organizzata di distruzione e profanazione dei luoghi sacri serbo-ortodossi. Oltre alle chiese e ai monasteri distrutti, sono stati profanati centinaia di nostri cimiteri. Le scene di devastazione sono visibili ancora oggi. La maggior parte dei siti distrutti nei villaggi da cui la popolazione serba è stata espulsa non è stata ricostruita. Le chiese danneggiate durante le rivolte del 2004 sono invece state per lo più ricostruite grazie al supporto internazionale e alla pressione sulle autorità kosovare per facilitare la ricostruzione. La ricostruzione è stata supervisionata dal Consiglio d’Europa e finanziata dall’Unione Europea».

Sono stati uccisi anche due monaci…

«Dopo la guerra, nell’estate del 1999, due monaci serbo-ortodossi furono brutalmente uccisi da membri dell’UCK (Esercito di Liberazione del Kosovo). Padre Hariton Lukić fu catturato da membri armati dell’UCK nelle strade di Prizren nel giugno 1999, nonostante la presenza delle truppe tedesche della KFOR in città. Il suo corpo mutilato e decapitato fu ritrovato e identificato un anno dopo. Venne sepolto, ma i responsabili di questo crimine non sono mai stati portati davanti alla giustizia, come nel caso della maggior parte dei crimini di violenza etnica post-bellica contro serbi e non albanesi in Kosovo. Padre Stefan Purić fu invece rapito vicino a Klina, nel Kosovo occidentale, insieme a un insegnante serbo, mentre cercavano cibo per i civili serbi rifugiati nel monastero di Budisavci. Secondo testimonianze informali di un albanese del Kosovo, membro prima dell’UCK e successivamente della polizia kosovara, furono massacrati e sepolti in una località non identificata. Non è mai stata avviata un’indagine su nessuno dei due casi. Centinaia di serbi furono anche rapiti dall’UCK, detenuti illegalmente e persino trasportati in campi illegali in Albania. Mentre alcuni corpi sono stati recuperati, ci aspettiamo che la Corte dell’Aja conduca indagini e identifichi i responsabili di questi atti di terrore».

Gli accordi internazionali firmati dopo la guerra, come quelli di Kumanovo e di Bruxelles, sono stati rispettati?

«Per quanto ne so, la KFOR ha confermato più volte che l’Esercito serbo ha rispettato tutti gli accordi, con riunioni regolari della loro Commissione congiunta di attuazione che dimostrano una buona cooperazione. L’Esercito serbo ha lasciato il Kosovo nell’estate del 1999, dopo di che la KFOR ha stabilito il controllo sul territorio, sebbene per un certo periodo i gruppi dell’UCK abbiano continuato a operare apertamente. L’Accordo di Kumanovo è strettamente legato alla Risoluzione 1244 del Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite, che costituisce la base per le operazioni di mantenimento della pace della KFOR e per il coinvolgimento di altri “pilastri” internazionali in Kosovo dal 1999, come le Nazioni Unite, l’Unione Europea e l’OSCE. Tuttavia, la Risoluzione 1244 non è stata pienamente attuata sotto molti aspetti. Il ritorno di tutte le persone sfollate (soprattutto dei serbi) non è stato facilitato. Non è stata garantita piena sicurezza per le popolazioni serbe e non albanesi. E le autorità kosovare hanno proclamato la secessione dalla Serbia, cosa non prevista dalla Risoluzione 1244. Questa secessione è ancora fortemente osteggiata dalla maggioranza degli Stati membri dell’ONU, inclusi cinque Paesi dell’UE (Cipro, Grecia, Romania, Slovacchia e Spagna). Il Kosovo non è stato ufficialmente riconosciuto come stato dall’UE, dal Consiglio d’Europa, dall’OSCE, dall’UNESCO e da molte altre organizzazioni internazionali. La Risoluzione 1244 richiede un accordo negoziato tra Belgrado e Pristina e, dal 2013, i negoziati sotto l’egida dell’UE mirano a normalizzare le relazioni. Tuttavia, la piena attuazione rimane una sfida a causa delle tensioni politiche ed etniche in corso».

Dal punto di vista della Chiesa serbo-ortodossa Serba e della comunità serba, il Kosovo rispetta lo stato di diritto?

«La Chiesa serbo-ortodossa ha affrontato notevoli difficoltà riguardo al rispetto dello stato di diritto in Kosovo dalla fine della guerra nel 1999. A causa della distruzione sistematica del nostro patrimonio da parte di gruppi estremisti albanesi del Kosovo, 40 dei siti più importanti sono stati posti sotto la protezione armata della KFOR. Oggi, il Monastero di Visoki Dečani è l’unico sito che resta sotto protezione diretta della KFOR, con un ruolo di primo piano svolto dai peacekeeper italiani. Le violazioni dello stato di diritto hanno riguardato principalmente la mancanza di rispetto per i diritti e le libertà fondamentali, i diritti di proprietà e altre disposizioni garantite alla Chiesa nel corso degli anni. La questione dei terreni del Monastero di Visoki Dečani è un esempio emblematico di questa mancanza di rispetto. Per anni, 24 ettari di terreni del monastero sono stati sottratti dalle autorità locali, che li hanno registrati come proprietà municipale. Sebbene la Missione delle Nazioni Unite abbia permesso al monastero di utilizzare i terreni fino alla risoluzione del caso in tribunale, le cause legali sono durate dal 2000 al 2016. Alla fine, sia la Corte Suprema del Kosovo sia la Corte Costituzionale del Kosovo hanno confermato la proprietà del monastero nel 2016. Nonostante queste sentenze, le autorità municipali, sostenute dal governo del Kosovo, hanno ostacolato per otto anni la correzione dei registri catastali. Questo problema è stato risolto solo lo scorso aprile, grazie a una significativa pressione diplomatica internazionale. Tuttavia, la restituzione delle proprietà confiscate durante l’era Tito rimane incerta, e la protezione delle proprietà esistenti della Chiesa continua a essere una sfida».

E i pochi serbi rimasti come vivono? I loro diritti umani sono rispettati?

«Sebbene la violenza su larga scala che ha caratterizzato gli anni immediatamente successivi alla guerra sia cessata, i serbi continuano a subire discriminazioni etniche in quasi tutti gli aspetti della loro vita, dipendendo quasi interamente dal supporto finanziario della Serbia centrale. In pochi lavorano oggi nelle istituzioni kosovare o nella polizia e per loro è quasi impossibile ottenere un impiego nelle aziende di proprietà albanese. D’altro canto, va detto che gli stessi albanesi del Kosovo affrontano uno dei tassi di disoccupazione più alti in Europa. I sistemi sanitari e educativi per i serbi in Kosovo operano ancora in coordinamento con la Serbia, ma recenti decisioni delle autorità kosovare di vietare l’uso del dinaro serbo per pensioni e stipendi hanno avuto un impatto grave sulla popolazione serba. Sebbene l’euro sia di fatto utilizzato in Kosovo, ciò è avvenuto senza un accordo con la Banca Centrale Europea o una legge formale sulla valuta. Il divieto dell’uso del dinaro e il blocco commerciale con la Serbia, imposti dal governo Kurti, hanno reso la vita ancora più difficile, specialmente nel Nord del Kosovo».

Per questo si sono ritirati dalle istituzioni kosovare?

«Sì, in segno di protesta contro le politiche discriminatorie di Pristina, i serbi del Nord del Kosovo si sono ritirati dalle istituzioni kosovare, ora gestite principalmente da albanesi kosovari. I serbi nel nord del Kosovo riferiscono di sentirsi come se vivessero sotto occupazione, con tensioni crescenti, arresti arbitrari e perquisizioni aggressive della polizia, spesso armata di fucili. In altre parti del Kosovo la situazione è relativamente più calma, ma i serbi percepiscono che le autorità albanesi kosovare stanno cercando di costringerli a lasciare il Paese. La resilienza della comunità serba è sostenuta principalmente dalla Chiesa, da organizzazioni della società civile e da alcuni media indipendenti serbi. Un aspetto incoraggiante è il crescente numero di pellegrini che visitano i siti sacri in Kosovo e l’assistenza fornita da molte organizzazioni umanitarie serbe alle famiglie povere. La nostra Diocesi gestisce sei mense che forniscono pasti giornalieri a 2.000 persone vulnerabili, principalmente anziani. Ma nonostante le difficoltà logistiche causate dai divieti sulle importazioni e dalle restrizioni valutarie, i sistemi sanitari ed educativi per i serbi continuano a funzionare. È interessante osservare come molti albanesi del Kosovo cercano cure mediche presso strutture serbe, sia in Kosovo sia in città serbe come Belgrado».

Oltre a condannare formalmente le violazioni dei diritti umani, la comunità internazionale interviene concretamente per proteggere i diritti dei serbi in Kosovo?

«Le ambasciate occidentali in Kosovo hanno spesso chiesto la protezione dei diritti umani e religiosi per i serbi e per altre comunità non maggioritarie. Tuttavia, le organizzazioni umanitarie e per i diritti umani occidentali non sono più attive in Kosovo come lo erano in passato. Fanno eccezione organizzazioni come l’italiana “Amici di Dečani” dall’Italia, la statunitense “International Orthodox Christian Charities” la francese “Solidarité Kosovo”. Purtroppo, il Kosovo non è più al centro dell’attenzione internazionale, di conseguenza gli interventi concreti della comunità internazionale per proteggere i diritti dei serbi sono diminuiti nel tempo.

Qual è la situazione delle altre minoranze in Kosovo, come rom, gorani e turchi? La Chiesa intrattiene rapporti o collaborazioni con queste comunità?

«Con le minoranze rom e gorani, che spesso vivono accanto ai serbi, manteniamo buone relazioni. La comunità turca è relativamente piccola. Comunque noi cerchiamo di costruire rapporti positivi con tutte le comunità, ribadendo sempre che i nostri luoghi sacri sono case di Dio, aperte a tutte le persone di buona volontà. Tuttavia, molte comunità non maggioritarie, inclusi rom e i gorani, stanno lasciando il Kosovo. L’instabilità cronica della regione, la dipendenza dalle rimesse della diaspora e i problemi persistenti riguardo lo stato di diritto e la sicurezza rendono difficile immaginare un futuro stabile e prospero. Molti membri di queste comunità si sono trasferiti nella Serbia centrale in cerca di migliori opportunità».

Come si comporta la KFOR, la missione NATO in Kosovo?

«La missione della KFOR è chiaramente definita dalla Risoluzione 1244 del Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite. Nel suo mandato, ha svolto un ruolo cruciale nel prevenire la completa espulsione della comunità serba dal Kosovo dal 1999. Tuttavia, in passato, la KFOR ha spesso evitato di confrontarsi direttamente con gli estremisti albanesi del Kosovo, concentrandosi invece sul mantenimento della neutralità e della stabilità. Il ruolo della KFOR nella protezione dei luoghi sacri della Chiesa Ortodossa Serba rimane inestimabile. In particolare, nei momenti di tensione, la KFOR è stata determinante nel prevenire l’escalation della violenza. Detto ciò, sarebbe auspicabile un maggiore coinvolgimento internazionale nel limitare l’uso eccessivo della forza da parte della polizia del Kosovo, specialmente nel Nord».

Che ruolo gioca il contingente italiano, specialmente nella protezione del patrimonio culturale e religioso?

«Il contingente italiano della KFOR merita un elogio speciale per il suo lavoro nella preservazione di alcuni dei più importanti siti religiosi serbi. La nostra Chiesa ha conferito alla KFOR italiana la sua più alta onorificenza, in riconoscimento del suo impegno nella protezione di questi siti nel 2004. Il contingente italiano è principalmente responsabile della parte occidentale del Kosovo, e la sua protezione del monastero di Visoki Dečani è stata particolarmente significativa. Senza la presenza della KFOR, e specialmente delle truppe italiane, è difficile immaginare come potremmo affrontare le numerose sfide che affrontiamo ogni giorno».

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