Pubblichiamo per chi l’avesse perduto, un interessante articolo di Claudio Magris sulla felicità e il sorriso. Ci sembra un buon contributo all’inizio della Settimana Santa per gli ortodossi.
L’acredine che ci toglie il sorriso
Di Claudio Magris – Corriere della Sera 13 aprile 2006
Messa pasquale ad Aurisina, in sloveno Nabrežina, piccolo vivace borgo sul Carso in provincia di Trieste. Il parroco, nella sua omelia, parla di resurrezione, quella di Gesù e quella interiore offerta ad ognuno, la rinascita spirituale che dovrebbe rinnovare la persona e darle gioia, come prescrive Gesù: «La vostra gioia sia piena». Ma se mi guardo intorno, se guardo voi — continua il parroco, sporgendosi un po’ dal pulpito — non vedo facce da resurrezione, ma piuttosto da calvario, tristanzuole e ingrugnite.
Il parroco ha ragione di pigliarsela con la musoneria delle nostre facce, più frustrate e diffidenti che aperte e gioiose. Egli sa bene che ci sono tante ragioni, personali e collettive, che gettano un’ombra su un viso e lo segnano di cicatrici spirituali — dolori, angosce, malattie, solitudini, difficoltà d’ogni genere. Non è certo con le sofferenze della sua gente che se la prende il parroco, perché sa che la fede è chiamata a lenire e a combattere le ferite del corpo e del cuore e forse talora nasce da quelle ferite. Ma quell’opaca acidità delle nostre facce non è solo espressione di dolore o di disagio. È l’acre risentimento di chi si rode per ciò che non ha anziché allietarsi di ciò che ha; di chi non si sente adeguatamente considerato; del vice-direttore non ancora promosso a direttore e più aspramente insoddisfatto, nonostante il suo più cospicuo stipendio, dell’impiegato a lui sottoposto; dello scrittore incattivito perché ha ricevuto un premio ma non un altro più importante; del partner che si sente incompreso e non si chiede, come non se lo chiede quasi nessuno di noi, se non è lui o lei a non comprendere l’altro. Il risentimento, hanno detto grandi filosofi, è talora una chiave della storia, individuale e generale.
Quel parroco sta inconsapevolmente e non a torto rivalutando la fisiognomica, spesso giustamente vituperata per certe sue implicazioni razziste. C’è una bocca acida — da mal de panza, si dice a Trieste — che non è sempre sofferta esperienza del dolore, bensì orgogliosa riluttanza a sentirsi compresi e appagati, a differenza di quel personaggio ricordato da Isaac Bashevis Singer nelle sue memorie d’infanzia, un povero diavolo sul cui volto «c’era sempre un’espressione di appagamento». Massimo il Confessore, teologo e martire cristiano del settimo secolo, diceva che la cupezza e la tristezza celano talvolta consapevole o inconsapevole rancore. Le grandi fedi religiose conoscono bene l’abisso del dolore, il sudore di sangue della disperazione, ma non si crogiolano in essi, bensì amano l’allegrezza: la serenità buddhista, la letizia francescana, il Veggente di Lublino, un santo ebraico-orientale, che amava un peccatore impenitente perché questi, nonostante ogni caduta, aveva conservata intatta la gioia.
La Messa è finita, andate in pace. Solo quando sei capace di ridere, diceva una scritta che avevo letto più di trent’anni fa sulla porta del duomo di Linz, hai veramente perdonato.