Amici Di Decani LogoAmici Di Decani Slogan

I pensieri di Rumiz

inserito il December 27, 2020

Avvicinandoci al termine di questo incredibile anno, ognuno si confronta con quel che si è vissuto. La riflessione del nostro Presidente Paolo Rumiz, condivisa con Repubblica, è una pietra miliare di quell’antropologia umana che stiamo progressivamente smarrendo in nome di un fantomatico benessere, di un distorto concetto di salute e salvezza.

La pioggia gelata piantava chiodi sul tetto e in cantina la caldaia era andata in blocco. Una caldaia a legna malandata e rimasta spenta troppo tempo. Ero in Slovenia, in un villaggio di pochi abitanti, stava facendo buio e dovevo arrangiarmi a rimediare. Controllare le valvole, tenere sott'occhio la pressione dell'acqua, badare alla temperatura. Pian piano ce l'ho fatta, non senza qualche sacramento. Alla fine la vecchia fornace ha ripreso a ronfare, ma non mi lasciava allontanarmi ancora. Dovevo imparare a conoscerla meglio. Così mi sono seduto a sorvegliare la fiamma. Per una, due, tre ore. Ipnotizzato dal fuoco, come nei bivacchi in montagna. Il gatto mi si era acciambellato accanto.

Avevo spaccato legna tutto il pomeriggio. Non era tempo perso, sottratto al lavoro, ma la costruzione di un varco indispensabile a far emergere dal silenzio emozioni e pensieri nuovi, dettati magari dal vento, dal bosco o dalla pioggia. Ero senza radio e senza televisione. Sconnesso dalla Rete e felice di esserlo. Il gesto ripetuto dell'accetta, svuotandomi la mente, aveva lasciato spazio all'irruzione di immagini che scavalcavano il Razionale ed emergevano con evidenza di metafora, mettendomi di fronte a verità lampanti, palpabili.

Le cose brutte di questo contagio le sapevo. Disuguaglianza, povertà, paura, insofferenza, dolore. Indebitamento pubblico, avanzata delle mafie, razzismo, reticolati alle frontiere. Digitalizzazione abnorme della vita, sfinimento da social, caduta libera in una realtà parallela e fittizia, padrona delle nostre paure. Una tecnocrazia che ci spingeva nel baratro di una prigione farmaco-burocratico-sicuritaria e in Italia inchiodava al potere politici impresentabili e incapaci di empatia (ah, il discorso accorato della Merkel...). Il tutto, in una cortina fumogena di allarmismi, negazionismi, protagonismi ed esibizionismi fatti apposta per disorientare la gente già nauseata dal martellamento di dati sanitari. Non si parlava che di Covid. I mille altre magagne del Paese erano dimenticate. Era ora di dire basta.

Il fuoco aveva preso vigore. Il gatto mi ronfava accanto. La pioggia era diventata nevischio e il silenzio si impadroniva del bosco. Poter pensare in santa pace: che lusso inestimabile! C'era qualcosa di buono nell'anno della pestilenza, e una era il tempo ritrovato. Quel tempo mi consentiva di percepire le cose e immedesimarmi in esse, più che di comprenderle con algebrica distanza. Capire, avevo letto da qualche parte, è la magra consolazione di chi non riesce a sentire. Ebbene, in quella notte da lupi, seduto accanto a un fuoco che mi parlava, sentivo con inattesa riconoscenza che il 2020 mi avevo portato anche dei doni.

Ogni catastrofe contiene in sé una lezione, il suggerimento di una via di salvezza. Altrimenti è una tragedia inutile. La pestilenza mi aveva dato, per cominciare, una sana, liberatoria percezione della mia vulnerabilità. Ogni scoria di sicumera occidentale era scomparsa. Sentivo che sarebbe bastato un attimo per precipitarmi tra gli Ultimi. Una malattia, un rovescio economico, un terremoto. Contemporaneamente quella casa nei boschi, il fuoco, la legnaia piena, sufficiente l'inverno, diceva quanto ero fortunato. Non ero a Sarajevo assediata, per scaldarmi non dovevo bruciare ogni giorno un libro o una doga del parquet. Non ero in Siria sotto le bombe. Ero in una casa calda, avevo un tetto sopra di me, la dispensa piena e nessuno che mi sparasse addosso. Sentivo l'eccezionalità del tempo senza guerre coinciso con la mia esistenza. E poi, ammalarsi in Europa era mille volte meglio che ammalarsi altrove. Persino meglio che in America. Ero un privilegiato, e come tale non potevo dar lezioni a nessuno.

Fuori diluviava, la montagna portava odore di neve e il buio era attraversato da ombre. Passavano gli Antenati, risalivano a fatica il loro albero genealogico per avvertirci di qualcosa. I nonni, i genitori, anche persone viste una volta sola, in treno o per strada, in una vita narrabonda. I loro volti riaffioravano dalla notte. Il villaggio aveva già acceso qualche luce di Natale ma, intorno al nido del fuoco, potevo percepire il lamento di un'umanità sofferente, quella dei malati isolati dai loro cari, dei poveri soli nelle loro case, e degli altri che migravano in silenzio, braccati dalle polizie, proprio lì, a due passi dalla mia frontiera.

Pochi giorni prima, in una sera di bora gelida su Trieste, mi era arrivato un appello nel telefonino. “Si cercano urgentemente indumenti caldi e coperte per i senza tetto”. Avevo pensato spesso a loro in precedenza, nelle notti di freddo crudo, ma il pensiero non era diventato azione. Quel messaggio del 2020, invece, mi aveva dato la sveglia. Ho aperto il guardaroba e l'ho trovato strapieno di indumenti buoni da dar via. Come mai non me ne ero accorto? Ho provato vergogna. Una vergogna del superfluo che era anch'essa un regalo, perché aveva fatto scattare il gesto: riempire la macchina di felpe, piumoni e coperte, e correre al centro di raccolta per incontrarvi a sorpresa una bella comunità di giovani lieti, forti, operanti. L'immagine della speranza.

Era quella la mia “ecclesia”, la mia gente. Non stava nel perimetro del sagrato, ma per strada. Non era il popolo del Black Friday, quell'interminabile Venerdì Nero dal nome sinistro che dissacrava il Natale e mandava a quel paese il distanziamento sociale con folle all'assalto come galline sul frumento. Non era nemmeno l'arrembaggio dei quarantamila alle scarpe strombazzate da una catena di ipermercati. Venghino venghino signori, il totem dello sconto annichiliva la paura del contagio, generava assembramenti, smantellava il senso civico, l'autodisciplina e ciò che resta di una democrazia di cui non eravamo più degni. Avevo la nausea del troppo. Una nausea che era anch'essa un regalo perché faceva scattare la nostalgia di una rivoluzione frugale.

Il fuoco illuminava altre immagini, le allineava in sequenza. Il fango di Lesbo, la pioggia e il vento dell'Egeo sui diecimila rifugiati dopo l'incendio del campo. Il Bambinello l'ho trovato lì, questo ottobre, raggomitolato nel freddo; la Natività si rinnovava sotto un telone precario, con gli scorpioni tra le coperte bagnate. Bimbi come i nostri, uomini come i nostri, tenuti lontano dai centri abitati come una vergogna e lasciati a bivaccare nei cimiteri, perché forse i morti hanno più pietà dei vivi. Polizie straniere pagate da Bruxelles picchiavano gli Ultimi. L'Europa dei ricchi legittimava i lager, insigniva della legion d'onore i torturatori di Regeni, calava le brache davanti a Erdogan, finanziava la cleptocrazia di Orban. L'Europa nata a Ventotene agonizzava a Lesbo. Due isole nel nostro destino.

Ma l'anno della peste mi aveva offerto in un giorno di maggio anche la fulgida icona di una Madonna incarnata, vivente nel corpo di una giovane siriana incinta. La rivedo uscire da un merci quasi identico a quello di Auschwitz, dove si era nascosta, e discendere in terra libera con quattro bambini per mano, raggiante di una dignità e di un portamento inimmaginabili dopo ventidue tentativi di fuga dal pantano croato. Veniva dalle terre di Cristo e nei suoi occhi leggevi una forza tranquilla, invincibile. Nessuno l'avrebbe fermata. Il suo bimbo sarebbe nato lontano da Erode e dalla strage degli innocenti. E certamente oggi egli è già nato, “vaìstinu se rodi”, veramente egli è nato, dicono i serbi ortodossi. In quel momento Dio era femmina.

L'anno del disastro mi diceva soprattutto: “Il vecchio mondo è finito”. Kaputt. Avevo sotto gli occhi il film di una drammatica mutazione in atto. Le misere ombre che mi circondavano nella notte, i malati, i poveri, i migranti, erano scorie prodotte dallo stesso tritacarne, l'economia del saccheggio e dalla schiavitù. Il clima lo confermava in pieno. I cieli limpidi di aprile – che ammonimento, che immagine indimenticabile! – ci avevano messo, meglio di mille evidenze scientifiche, di fronte al fatto che la Terra non ne poteva più di noi e che il Covid era un'inezia rispetto alla catastrofe del riscaldamento globale e alla povertà dilagante nel mondo. Finché il mare non sommergerà l'altare di San Marco a Venezia non capiremo. E, forse, nemmeno allora.

Non un partito, nemmeno uno, che osasse dire questa verità per timore di mandare in tilt la macchina del consumo. Sprofondavamo nello stato di polizia e nell'assistenzialismo farmaceutico col rischio che l'umanissima speranza in un vaccino ci esentasse dal dovere di cambiare. Il capitalismo divorava se stesso, produceva il cloroformio che gli impediva di percepire persino il proprio disastro, ci rendeva incapaci di capire la tremenda lezione e ciechi di fronte alle immagini che la sintetizzavano.

Presto saremo tutti più poveri, anche quelli che si sentono col culo al caldo. Anch'io lo sarò, ed è giusto così, perché la mia generazione ha solo preso, senza dare nulla. E intanto il Grande Occhio, approfittando di un influenza reale, la cui gravità non mi sogno di sminuire, si sta impossessando dei nostri dati. Il Covid era solo un acceleratore di un processo già in atto, l'occasione unica per addomesticarci del tutto e dare l'ultimo tocco alla prigione che già ci rinchiude. Un postino sui monti del Bolognese mi aveva detto ghignando: “Ci hanno fottuto con questa storia di 'Bella Ciao' cantata contro una dittatura morta e sepolta: non si sono accorti che ne abbiamo una ora, presente, sullo zerbino di casa”.

Anche dalla mia periferica tana nei boschi oltre frontiera potevo udire gli scricchiolii del sistema. Per salvare i dividendi di pochi avevamo tradito il welfare nato in Europa, scopiazzato l'America, smantellato la sanità pubblica in nome del privato e il senso civico degli Italiani in nome di una libertà individuale fraintesa come licenza e menefreghismo, e ora ci toccava fermare la vita di un intero paese e assistere allo spettacolo miserando di una nazione incapace di sentirsi tale, di passare dall'Io al Noi. Il tutto con l'economia al palo, inebetita come un pugile suonato, incapace di riflettere sui motivi del suo stesso arresto.

Il gigantismo era finito, lo gridavano al cielo i ciclopi fatti fuori da un microbo, i transatlantici ammassati a svernare nel porto di casa mia dopo la fine delle crociere di massa. Erano in un cimitero di elefanti, ma sempre vanagloriosi e illuminati a giorno come dei Titanic. Un'altra metafora-chiave, con accanto il suo perfetto contraltare: l'investimento cocciuto in cattedrali obsolete, l'ennesimo centro congressi, l'ennesimo ipermercato o l'ennesimo maxi-aquario delle meraviglie proposto alla mia città da una consorteria di vecchi arnesi ammanigliati. Soldi a palate per cose che non vuole più nessuno, e neanche un centesimo per il commercio morente. Ero nuovamente davanti all'evidenza del misfatto.

Buttavo altra legna nelle fauci della caldaia, e il fuoco, ringraziandomi, soffiava: “Vivi il presente... L'eternità, ragazzo, è nell'istante... Non cercare... oltre”. Ricominciare, bisognava, in modo radicalmente diverso. Ritrovare il tempo, ricuperare la manualità perduta, liberarsi il più possibile dalle protesi elettroniche che ce l'avevano tolta. “Staccati dalla connessione che ti sorveglia – diceva ancora il fuoco - presto una pandemia informatica fermerà il mondo assai più di questa, sanitaria. Nulla più è come prima”. Ed ecco che infrattarmi nei boschi acquistava un senso nuovo, partigiano: far perdere le tracce e ritrovare la gioia di camminare senza telefono e senza mappa, orientandomi col sole o cercando il Nord nel muschio sui tronchi degli alberi. Non contemplavo più la mia terra: la pattugliavo. Ne diventavo responsabile.

“Io sono il Dio delle piccole cose – mi sussurrava crepitando la fiamma nella notte di neve - impara i gesti della sopravvivenza”. Tagliar legna, pelar patate, aggiustare un rastrello, spietrare, zappare, potare. L'homo faber si risvegliava dal letargo, ridava senso ai verbi svuotati dall'abuso di Rete: importare, prendere, scaricare. Capivo più cose sminuzzando cipolla che navigando su Google. E il fuoco mi restituiva tutta la dimensione dell'amore, che richiede sì la fiammata iniziale ma poi esige manutenzione. Quella ordinaria dei piccoli gesti, e quella straordinaria, quando il fuoco si spegne o cova sotto la cenere. Come un elettrodomestico, l'amore vuole istruzioni per l'uso.

Le limitazioni potevano farci crescere. Seppellivamo la mamma della mia compagna ed era crudele non potersi abbracciare dopo la messa. Non avevamo che lo sguardo e la parola per comunicare tra noi. Era poco, certo. Ma questo ci costringeva a mettercela tutta con i gesti, gli occhi e la voce. Esploravamo parole nuove, osavamo dire cose non di circostanza. Eravamo come quei boscaioli, o barcaioli, che ricorrono ad antichi e collaudati richiami per superare la distanza. Ritrovavamo il senso del Verbo, la forza rivoluzionaria della parola in un rapporto tra umani disidratato dall'abuso di frettolosi messaggi scritti. Del resto, in tutte le mitologie, dietro ogni atto di creazione esiste un segno verbale, una sillaba, un tuono, un grido, una frequenza sonora.

Gli opposti si chiamavano. Il confino di un mese in aprile aveva acuito la mia voglia di libertà e ridato vastità e senso agli spazi di casa mia. Allo stesso modo l'indigestione da virtuale aveva acceso una tremenda la nostalgia dei corpi. A giugno avevo visto due ragazze tredicenni abbracciarsi piangendo per tre ore, incredule di potersi toccare e annusare, dopo aver chattato per tutta la quarantena. Quanto a me, credo di non aver mai raccontato tante fiabe ai nipotini come ora che sono lontani. E loro non mi hanno mai ascoltato tanto avidamente. Narrando via Skype “Moby Dick”, con addosso una cerata e in pugno un coltellaccio da cucina come rampone, ho capito tutta la forza seduttiva della voce. Quanta meraviglia in un “grazie” fra passanti, in un accenno di premura verso uno sconosciuto. O in un semplice “come stai”, pronunciato in un certo modo.

Stavo ritrovando la comunità, la fratellanza, la condivisione. Un coetaneo bellunese mi aveva telefonato poco prima di andare sotto i ferri per raccontarmi una parabola sul tema. Nel suo paese del Cadore aveva intessuto relazioni, affabulato e seminato letizia per tutta una vita. Un narratore formidabile, un fenomeno di simpatia che d'un tratto s'è ritrovato solo e obbligato a barricarsi in casa per non rischiare il Covid alla vigilia dell'intervento. E poiché non aveva più potuto fare la spesa, ecco che gli amici, senza dirgli nulla, gli avevano lasciato ogni giorno sulla porta di casa una gavetta con il pranzo caldo. Riaveva quello che aveva seminato. “Essere buoni conviene”, mi aveva detto. Pateva una storia del Nuovo Testamento. La parabola della gavetta.

Nella notte di tempesta ero diventato anch'io un gatto che ronfa accanto al fuoco. Ero un nonno da manuale, seduto vicino alla stufa. Accettavo con gioia la mia vecchiaia patriarcale. E intanto vedevo strafottenti irresponsabili strapparsi le mascherine in pubblico per negare non la malattia ma la vecchiaia e morte in sé, il grande esaltatore di sapidità della vita. La morte, rimossa da questa era della cosmetica e dell'eterna giovinezza che puzza tanto di formaldeide. Avevo la schiena a pezzi per aver fatto legna, ma che importava. Mi arrendevo agli acciacchi e convivevo con loro. Ma contemporaneamente, balbettando le prime parole di una lingua straniera, quella - del resto familiare - dei vicini sloveni, ridiventavo bambino. Ricominciavo a sillabare il mondo. L'inizio e la fine della vita si fondevano in una cosa sola. La morte era un punto a capo.

In un anno ero profondamente cambiato. Un severo angelo custode aveva piallato con durezza molti nodi e spigoli del mio vecchio legno. Non avevo più voglia di compromessi né di rinvii. Non sopportavo i lamentosi, i codardi, i falsi, i seminatori di zizzania e quelli che si arrovellano piegati sul loro ombelico. Ed era tempo, a settanta e passa anni di età, di liberarmi della morchia. La percezione del disastro mi indicava anche una precisa linea di resistenza. Basta piagnistei. Avevo voglia di letizia, di un tempo solo mio, e soprattutto di giovani con cui parlare per passare il testimone. E ce n'erano, di belli. Giovani che non si aspettano più niente da noi, e cominciano a fare da soli. Li appoggerò, anche in politica, se vorranno impegnarsi. Allons enfants, dunque. Buon Natale, ragazzi.                                                                                                                                                                 

Il nevischio si era diradato. Oltre uno squarcio nelle nubi nere si videro altre nubi, bianchissime e immense come cime himalaiane. Una Luna piena invisibile le illuminava a giorno.

Amici Di Decani LogoAmici Di Decani Slogan
Amici Di Decani Church
In ItaliaAssociazione Amici di Decani – O.N.G.Largo Fontanella Borghese 8200189 Roma - ItaliaCodice Fiscale 90068080028
In SerbiaUdruženje Prijatelji Dečana, Associazione Amici di DečaniJoza Laurenčića 10V11283 Beograd – Zemun, SerbiaPIB 108324157Matični broj 28128738
In Kosovo e MetohijaAmici di Decani - Prijatelji Dečana - Miqtë Deçanit NGOManastirska ulica bb51000 Decani – KosovoFiscal number 601139208